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Empire of light

 

Margate, contea del Kent. A cavallo tra il 1980 e il 1981 il cinema è la sola via di fuga per le giovani, e non, anime perse di una Gran Bretagna che non appare serena. È ciò che prova a fare l'Empire, sala cinematografica sul lungomare, e i suoi dipendenti, questi ultimi vera anima di un luogo dagli equilibri precariee che ha già dovuto chiudere due sale su quattro. Tra essi la vice-direttrice Hilary e il neo assunto Stephen iniziano un rapporto che in breve segnerà le loro giornate e il loro modo di approcciarsi all'esistenza. Tutto sullo sfondo di una decadenza che porterà a galla velocemente demoni privati e causerà più di una difficoltà.

Verso una spenta intimità

Empire of light

Se Sam Mendes non aveva mai scritto un film in solitaria, con il nome che si ritrova, un motivo doveva pur esserci. Il punto critico di Empire of Light, infatti, non è tanto una sceneggiatura semplice (e vista le molteplicità di temi proposti si potrebbe pure discutere a riguardo) quanto la sua sommarietà, evidente nel trattamento dei singoli protagonisti, abbozzati così come gli eventi che si susseguono. Quello del regista di American Beauty è un atto di comunione con una dimensione più personale che nel tentativo di evocare nostalgicamente, guardandosi indietro, finisce prestissimo per smaterializzare non solo la sostanza del discorso, lasciando con un pugno di mosche, ma soprattutto le emozioni.
Eppure, sia con l'accenno di una love story che con un contesto socioculturale e politico di fondo, i tentativi per provare a spingere verso un coinvolgimento emotivo

 

sembrano esserci tutti. Solo che queste dinamiche vengono sempre smorzate proprio nel momento in cui sembrano poter arrivare a dire con efficacia qualcosa di concreto. Perché Empire of Light sceglie di limitarsi sempre, solo sfiorando la delicatezza e andando più incontro all'inconcludente, provando a giocare, in maniera furba e opportunista, alcuni dei temi trattati (dalla difficile relazione, passando per il razzismo, la sanità mentale o il cinema stesso) solo nel momento di bisogno, tirandoli fuori e rimettendoli nel ripostiglio a piacimento, risultando più che un'arma a proprio favore una scelta passiva e infruttuosa.

Una luce che dura troppo poco
Mendes guarda ai suoi protagonisti e al mondo del cinema - non di chi lo fa, dell'industria, ma dei lavoratori delle sale e degli spettatori - con un sentimento evidentemente profondo e interessato (è facile comprendere come quel 1981 sia legato ad esperienze personali) ma operando in tal mondo finisce sovente per mostrare una comunità e un medium artistico troppo sospesi e separati dalla realtà esterna.

Se è vero che il cinema prova ad aiutare e proteggere (discorso per certi versi stimolante, come quando in una scena topica la sala diventa quasi uno scudo per difendere dall'esterno) va anche ricordato che ciò è anche frutto di quella realtà e il regista sembra in difficoltà a mostrare questo incontro-scontro. E lo stesso rapporto con la visione è talmente accennato e vago che quando finalmente, nell'atto conclusivo, un personaggio verrà inquadrato mentre assiste commosso alla proiezione di Oltre il giardino, tale momento sarà tristemente depotenziato. Il suo passo elementare e appiattito coinvolge così anche gli attori, vittime di snodi che non portano i personaggi da nessuna parte e penalizzano le interpretazioni, persino quella di Olivia Colman. E se con la scrittura si fatica (tra didascalismo e la ricerca delle emozioni con stratagemmi ordinari) sorprende come la regia sia così fiacca e prevedibile. Il fallimento più grande di Empire of Light risiede però nella sua, un po' ruffiana, doppia anima; quella di un passato che evidentemente richiama il presente (gli episodi discriminatori o la difficoltà delle sale), che nel tentativo di proiettare indietro la contemporaneità si mostra artificioso e singhiozzante.

Se c'è qualcosa che invece appare interessante e nel complesso riuscito, quello è il lavoro di Roger Deakins (all'ennesima candidatura all'Oscar): le sue immagini riescono parzialmente ad innescare quella luce richiamata dal titolo, bilanciando bene i toni, dando corpo con il colore e vita agli spazi. C'è da chiedersi cosa sarebbe stato il film se tutto fosse stato concepito attorno a quegli ambienti così ben visualizzati, mettendo essi al centro (facendolo bene, la spia di quello che poteva essere è il personaggio di Toby Jones e la sua cabina di proiezione) e raccontando davvero storie di rapporti con il cinema inteso sia come arte che luogo. Così però non è, e ciò che resta non basta per non restar delusi.

(Danilo Monti)

Ingresso € 5,00