Adriano Sereni è un cinquantenne che vive da recluso dentro un'ex scuderia. Non fa entrare in casa nemmeno il tecnico per riparare la caldaia, o il postino che gli consegna raccomandare destinate a rimanere chiuse, e si ciba solo di scatolette che abbandona in giro per la sua disordinata dimora. Non si lava praticamente più e "puzzicchia", come dice la sua amica Giuliana Marziali, che è stata sua socia in un importante studio legale: perché Adriano era un avvocato di successo, prima che un tragico evento gli spezzasse la vita in due. Giuliana cerca di convincerlo a presentarsi in tribunale - sì, le raccomandate erano convocazioni giudiziarie - ma lui accetta solo perché gli pare un'opportunità di rivedere il figlio Matteo, rimasto a vivere con l'ex moglie, cui manda messaggi quotidiani che rimangono senza risposta. Intanto, nella villa abbandonata di fronte alle scuderie, si accampa un gruppo di ragazzi, capitanato dalla volitiva Matilde, che vuole piantare viti e fare il vino, disturbando lo scorbutico eremita.
Cinque secondi appare come il doloroso precipitato dell'esperienza di padre separato del regista sublimata in forma artistica, depurata dal rancore, ma ancora profondamente radicata nella paura di non essere la figura paterna che sperava per i propri figli: non è un caso che nella squadra del film ci siano suo fratello e sua figlia Ottavia, qui (ottima) costumista.
Adriano è "un padre che ha sempre navigato controvento", che ha compiuto azioni "inadatte" e ha immaginato il proprio ruolo in modo creativo e inconsueto per poi comprenderne "cinque secondi" troppo tardi i rischi. Si è rivelato a se stesso un padre "inadatto" e "inutile", e adesso è intento ad espiare quella colpa, comportandosi come un Clint Eastwood maremmano (e ricordiamo che il nucleo del senso di colpa di Eastwood, che è anche il nucleo doloroso e irrisolto di alcuni dei suoi film, è il tormentato rapporto con una delle sue figlie).
La sua protettività verso Matilde, che rifiuta ogni forma di patriarcato, è anche un modo per raccontare una generazione, quella dei ventenni di oggi, che sta ridefinendo i ruoli di genere, il che lascia soprattutto i maschi privi di una collocazione tradizionale, e non sempre per scelta. Il corollario del concetto di "terra abbandonata diventata di tutti" con cui il gruppo dei ragazzi si impossessa dello spiazzo di fronte alle scuderie è che l'appartenenza - a una famiglia, a un genere, a un'identità - sia superata, e questo non è solo liberatorio, è anche... spiazzante. "Tanto un padre non serve", si dirà nel film. Dunque "c'è ancora bisogno di padri?" potrebbe essere la domanda correlata a quella centrale.
Ma il team di sceneggiatura, la regia "a mestiere" di Virzì e la recitazione del cast creano personaggi, non algoritmi. E dunque Valerio Mastandrea regala la sua naturale misantropia e la sua incongrua tenerezza al ruolo di Adriano: Valeria Bruni Tedeschi fa di Giuliana una donna di buon carattere, sempre disposta a comprendere e ad alleggerire; Ilaria Spada nel ruolo dell'ex moglie lascia filtrare la sua dolcezza attraverso le crepe dolorose d una maschera di rancore e disperazione. Ma a brillare è soprattutto Galatea Bellugi, di formazione artistica mitteleuropea, restituendo carne, sangue e toscanità ad un personaggio che sulla carta avrebbe potuto rimanere uno stereotipo agreste.
Con Cinque secondi Paolo Virzì fa un j'accuse del sarcasmo con cui, in una certa misura, ha guardato il mondo, anche attraverso i suoi film, e abbandona ogni distacco ironico per immergersi (e immergerci) nel viaggio di redenzione del quale abbiamo disperatamente bisogno oggi.
Il suo film è speculare e contrario al monologo nichilista e disfattista di Emanuela Fanelli in Un altro ferragosto, senza peraltro mai cadere in un buonismo "veltroniano" assolutorio e opportunista. "Bisogna avere fiducia, tanta fiducia", dirà Adriano, con nello sguardo la consapevolezza che quella fiducia potrebbe non bastare. Ma che sa che, da padre, è imprescindibile, e le si deve imprescindibile rispetto.